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PANGEA Numero 2 Anno 2020
Lezioni di lavoro. Esperienza e errori tecnici
Pietro Jarre, ingegnere
Per imparare la tecnica di risoluzione di un problema basta studiare, ma per imparare a capire che problemi ab-
biamo di fronte serve l’esperienza.
Per risolvere bene i problemi, a volte l’esperienza è un ostacolo, perché non tutti i problemi appartengono alle
stesse specie: quando sono proprio del tutto diversi da quelli già visti, l’esperienza può ingannare. Abbiamo sem-
pre trovato chiodi da battere, abbiamo ottimi martelli? Attenzione, perché questa volta quel problema lì è una
vite, e il tuo martello non sortirà alcun effetto positivo.
Dell’importanza di condividere le storie degli altri, tra tutti, per aumentare la propria esperienza e prevenire rischi
ed errori, ho parlato sul primo numero di PANGEA. Oggi rifletto con voi sull’importanza di condividere le nostre
storie con noi stessi, sulla necessità di guardare i propri errori, e con serenità ragionarci, e con perseveranza ricor-
darli, e senza vergogna raccontarli. A sé, e agli altri, in modo da costruire vera esperienza.
Una decina di anni fa un ingegnere quarantenne – 15 anni più giovane di me - venne nel mio ufficio e mi disse
“Pietro, mi dispiace molto, ma me ne devo andare; qui nessuno considera la mia esperienza”. Gli risposi che an-
che a me dispiaceva e non poco, soprattutto per le ragioni riportate, e gli feci due domande che facevo spesso:
- prima domanda: quando è stata l’ultima volta che hai imparato qualcosa di importante, qui?
- seconda domanda: quali sono stati i tre errori tecnici più grandi che hai fatto, sinora?
Entrambe le domande hanno a che fare con la percezione di sé stessi e la capacità di vedersi con correttezza, mo-
nitorando la propria crescita professionale e umana con l’età, il che è diritto e dovere di ogni professionista.
La prima domanda nasce da un concetto semplice, che riguarda gli ambienti di lavoro e noi stessi: se a 30 anni
non impariamo qualcosa di nuovo ogni giorno, e a 40 ogni settimana, e a 50 ogni mese, e a 60 ogni anno, beh, è
molto probabile che quel posto di lavoro non faccia per noi, o viceversa, e questo può essere usato come para-
metro per misurare davvero l’efficacia dell’incrocio posto/persona. E pure, d’altronde, per verificare che sappia-
mo imparare, e sappiamo come impariamo, il che non è banale e non è superfluo, anzi piuttosto indispensabile
per sapere dove trovare le fonti per le prossime idee di cui avremo bisogno. Lui rispose: mah non ricordo, mi spia-
ce. E io capii che non dovevo poi dispiacermi troppo, io, del fatto che se ne andasse.
La seconda domanda è più difficile, e non molti sanno rispondere con prontezza. Taluni anzi faticano proprio a
riconoscere di aver fatto errori tecnici. E rispondono facendo esempi che ineluttabilmente derivano poi degli
“errori di comunicazione”, la cenerentola cui si affibbiano i lavori sporchi. Eppure no, i tecnici fanno errori tecnici,
gli errori toppano certi dimensionamenti, dimenticano specifiche basilari, disegnano cose incostruibili. Nonostan-
te i sistemi automatici, anzi forse anche più di prima, poiché tanto lavoro è fatto di fretta e senza doppi o tripli
controlli, abituati ormai come siamo a considerare tutto rifattibile, tutto liquido, tutto in draft. Una vita in draft….
E dunque alla seconda domanda lui rispose, dall’alto dei suoi 15 anni di lavoro: ma Pietro, no. Io non ho mai fatto
nessun errore. Io rimasi un attimo interdetto, non potevo proprio crederci, poi gli citai un paio di casi di miei errori
tecnici, seri e non mortali, e corretti in tempo, ma belli sodi, riconosciuti da me come figli miei: il primo dopo due
anni di laurea, il secondo pochi anni prima, io già cinquantenne.
Lui mi guardò a bocca aperta, probabilmente avevo perso la sua stima. Allora gli dissi io questa volta: guarda mi
spiace, ma certo tutto considerato è meglio se vai. E non lo dissi, ma pensai che non potevo proprio essere
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